Intercultura - Capitolo 10 Il viaggio in famiglia

2014

Un giorno Patty decise di partire per uno degli itinerari che Sunugal organizzava per piccoli gruppi in Senegal, portandosi il figlio: un bel viaggio istruttivo in Africa, accompagnati da Modou in persona, e da un figlio di Modou coetaneo, che non era mai stato nei paesi natali. Sarebbe stata un’occasione irripetibile di viaggio. I due ragazzi quattordicenni si ritrovarono catapultati in una realtà inimmaginabile per dei ragazzini cresciuti viziati in una città italiana, per la prima volta in un paese Subsahariano. Ora i diversi erano loro, unici tubab -tradotto bianchi- catapultati fra una marea di persone nere, additati e trattati con la tipica distanza sussiegosa con cui gli africani trattano i rari bianchi in visita. Erano loro, dall’interno dell’autovettura o alle spalle di Modou, a sentirsi diversi e a volersi proteggere dall’occhio indagatore. L’autovettura: già quando si arrivò all’aeroporto di Dakar fu chiaro che non sarebbe stato un viaggio di lusso. L’auto era antica come tante auto in quel Paese, doveva aver combattuto tante battaglie, apparteneva a un collaboratore di Modou, aveva il parabrezza rotto e i sedili tipici delle nostre auto anni ‘70, ma promisero che avrebbe funzionato. L’uscita dall’aeroporto-il vecchio aereoporto nel centro di Dakar - era un’esperienza di immersione in un fantastico caldo secco e in una miriade di colori e di persone che ti accoglievano gesticolando, per offrirti qualcosa. La presenza di Modou era essenziale per arginare la profferta di servizi, e dava un grande senso di sicurezza e di protezione. Patty era sotto la sua giurisdizione, erano già assegnati, e quindi lasciati in pace. Questo era un aspetto essenziale e impagabile: non eravano tubab qualsiasi, eravano più familiari. Uno di loro era perfino figlio di Modou. Era una meraviglia guardare negli occhi dei figli e leggervi lo stupore con cui già assaporavano quei primi momenti in terra d’Africa. Comportamenti diversi, movenze, suoni diversi, la stessa fila per avere il visto era tipica dei confini di un paese del terzo mondo, non aveva nulla a che fare con gli anonimi aeroporti Hub del mondo globale. I grandi pacchi che trasportavano nell’unico nastro tapisroulant non erano valigie, erano mondi diversi. I bianchi presenti in aeroporto si contavano sulle dita di una mano: era Africa, indiscutibilmente. 

Il viaggio in auto durò poco, perché l’alloggio era nel quartiere che circondava l’aereoporto, che già era Dakar, ed era anche un quartiere di pregio di Dakar, li informo’ Modou. Per un attimo Patty pensò che la stessero prendendo in giro: come faceva quello ad essere un quartiere di lusso? Le costruzioni erano perlopiù a due piani ma con le armature del cemento lasciate a sventolare alte nel caso si decidesse di proseguire la costruzione, ed erano case simili a quelle che aveva visto in altre periferie del terzo mondo, le strade erano sconnesse, i vicoli di terra battuta. Era questa la famosa Dakar che aveva acceso l’immaginazione di un passato verde, coloniale, quando era un elegante insediamento francese? Negli ultimi 40 anni la città era cresciuta a dismisura, con un caotico inurbamento dalle campagne, ed ora era un delirio abitato da milioni di persone, nei diversi quartieri, percorso da milioni di auto che giornalmente si incrociavano nelle strade polverose, che regolarmente si allagavano. Se dovevi attraversare la città, dovevi programmare un viaggio e non eri mai sicuro dei tempi di percorrenza. Quel giorno però l’alloggio era vicino e quindi velocemente si ritrovarono nella struttura: un ostello pulito e dignitoso che aveva all’ingresso dei souvenir adatti ai viaggiatori di quel contesto, usualmente volontari o solidali. Le stanze dove depositarono le valigie erano essenziali, colorate. Furono fatti sedere all’ingresso e nel giro di pochi minuti arrivò un enorme piatto metallico che conteneva agnello e riso. Si mangiava tutti insieme, dallo stesso piatto, con le mani, dopo essersele lavate in una bacinella. Patty si sentiva a suo agio, mangiare con le mani le era sempre piaciuto, anche se così, in tanti attorno ad uno stesso piatto, con le mascelle che si muovevano all’unisono, faceva una strana impressione di intimità eccessiva a chi non fosse abituato. In seguito avrebbero sperimentato ciò che accade nei villaggi al momento del pasto: un grande piatto è predisposto per gli uomini, che mangiano tutti insieme, mentre le donne e i bambini si arrangiano separatamente. Loro, i tubab, erano ammessi anche al piatto degli uomini, perché erano considerati un genere a parte. Erano gli ospiti ed erano bianchi. Così quel primo pasto fu consumato con l’agnello, il prezioso agnello che nei villaggi si mangia solo in occasioni speciali, essendo la carne un lusso raro. A Dakar lo si può comprare anche per strada, in specie di baracchini che lo vendono avvolto in fogli di carta oleata. È una carne dura ma prelibata. Così i ragazzi furono battezzati con agnello e riso e diedero inizio a quel percorso conoscitivo straordinario. 

Il giorno dopo si partì per il villaggio, con il bravissimo autista che cercava di rassicurare Patty sulla tenuta del parabrezza, tradotto dall’imperturbabile Modou che dava prova, anche qui, di saper fare scorrere come l’acqua, su di sé, ogni tensione, ogni richiesta, ogni parola a cui non rispondeva che con un mugugno. Era troppo abituato a sentire i bianchi lamentarsi una volta che mettevano piede in Africa, sapeva che doveva lasciarli ambientare. Era impossibile bypassare la sua volontà e quindi Patty si adeguò, si lasciò andare, smise di protestare. Non sapeva davvero se doveva dare piena fiducia a questo senegalese, ma dopotutto era ospite in terra sua. Il viaggio fu intenso, bello, lungo, caldissimo perché chiaramente l’auto non era condizionata. Inizialmente avevano percorso la circonvallazione trafficatissima che usciva da Dakar, con le auto intasate che strombazzavano e i venditori di arachidi che invadevano i finestrini aperti infilando le braccia nella macchina infuocata. Poi la strada era diventata la statale a una corsia che si snoda sempre dritta fino a San Louis, attraversando un paesaggio sempre uguale di steppa punteggiata da alberi Baobab fantasmagorici. Se non fosse che i 400 chilometri di strada erano sempre fiancheggiati dalla vita, che si svolgeva lungo la strada: insediamenti, costruzioni, venditori di frutta e verdura, pedoni, animali, la giornata trascorreva lungo quella strada, e ogni tanto ci si imbatteva in un agglomerato urbano ancora più vivace. Le donne sedevano in gruppi colorati e chiacchieravano, mangiavano, vendevano ortaggi e noccioline lungo la strada. Per terra, chiaramente. Gli uomini circolavano con passo che non si poteva dire frettoloso. Spesso li sfiorava un camion caricato all’inverosimile come un grande pacco in transito. Faceva paura vedere questi mezzi pesanti sfrecciare su un asfalto mal tenuto, e pure tutto sembrava andare come doveva. Un giorno, anzi una sera, sarebbe capitato anche di imbattersi in un incidente. Una corriera carica di persone era finita contro un’auto, era andata in parte fuori strada rovesciandosi su di un lato. La strada era bloccata dai mezzi incidentati e quindi le automobili si erano fermate, nel buio, in coda, e si era accorsi sul luogo dello scontro, che era appena avvenuto. Il buio era totale, a lato della corriera, sulla carreggiata, stavano stese delle persone che riportavano qualche rottura, si cercava ancora qualcuno che mancava all’appello. Gli incidenti hanno sempre la capacità di attrarci ed impressionarci, in quel caso quello che colpiva era la quantità di persone coinvolte, e anche qui la moltitudine umana si confondeva, i numeri non contavano più, erano tanti e basta. Non si lamentavano, prendevano anche quel fatto con rassegnazione, come parte dell’eventualità di ogni giornata. Quando finalmente si riuscì a passare, la corriera era ancora lì, una massa di ferro scalcagnata riversa su di un lato, e nel buio pesto della notte africana faceva impressione.

Quel primo viaggio con i ragazzi si arrivò al villaggio senza intoppi, dopo circa due ore di viaggio nel sole, e fu una festa. Il villaggio era nell’entroterra, e lo si raggiungeva con qualche chilometro di strada sterrata, semidesertica, dopo aver lasciato la strada principale. Patty vide comparire le costruzioni a un piano, uniformi nel paesaggio giallastro, e capì che si trattava di un vero villaggio. Nessuna traccia di un paese, ma poche costruzioni raccolte attorno a una strada di sabbia e niente altro. Faceva molto caldo, tuttavia una nuvola di bambini venne incontro all’auto che sobbalzava nella polvere. Modou li tenne a bada con ordini perentori, in Wolof. Diede loro delle istruzioni secche e i bimbi si adeguarono, senza tante storie. Era incredibile constatare come siano ben educati i bambini africani, al contrario dei bimbi occidentali, spesso viziati e pretenziosi. Arrivarono alla casa di Modou, che era anche la foresteria di Sunugal Associazione italo-senegalese, dove accoglievano gli ospiti di passaggio, le volontarie, gli scavatori di pozzi e gli scout. La casa era la più bella del villaggio, ed era costituita da alcune stanze costruite attorno a un cortile di terra battuta, anzi di sabbia. Tre di esse erano riservate agli ospiti, al lato opposto un’unica stanza dove dormivano donne e bambini, e la stanza del patriarca, il padre di Modou. La cucina doveva essere un fornello alimentato da bombola a gas, in esterno. Vi erano anche due bagni con doccia, riservati però solo agli ospiti bianchi. Quello che impressionava era la pulizia e la tranquillità del luogo, pur nella totale povertà e assenza di qualunque oggetto o tecnologia o diversivo. Nelle stanze, un letto con zanzariera e niente altro; però per terra una stuoia colorata. La costruzione poteva ricordare una casa coloniale, per il patio attorno al cortile, anche se la modalità costruttiva era di essenzialità africana. Per una scala si saliva sul tetto, che era provvisto di tettoia. Alla sera, gli uomini salivano a mangiare, prendere il fresco e chiacchierare, mentre a donne e bambini quel terrazzo era interdetto. Se non per portarci il cibo. Era un terrazzo spettacolare nella sua collocazione: a quell’altezza lo sguardo si perdeva nella savana e nel deserto, e una valanga di stelle ti inondava, nel buio più totale. Quando arrivarono, Modou scaricò la frutta che aveva portato in omaggio alla casa e senza tanti convenevoli iniziò ad aggirarsi per controllare che tutto fosse in ordine. Patty e I ragazzi stettero a guardarsi attorno, abbastanza impressionati. Ora i bimbi erano solo una decina, quelli che abitavano la casa, quindi la situazione si era fatta più gestibile. Mamadou presentò al patriarca suo figlio che veniva da lontano. Così finalmente il nonno ebbe l’opportunità di vedere il nipote, e il nipote di conoscere il nonno. Fu un momento emozionante. Era un uomo piccolo piccolo, ricurvo sulle spalle, aveva coltivato i campi per tutta la vita, vestiva una tunica bianca e portava un bastone in mano. Era una persona di grande dignità. I suoi occhi lasciarono trasparire un commosso turbamento e Patty fu felice. Il nipote reagì molto computamente, come se gli stessero presentando il personaggio di un film. Modou provò orgoglio e assaporò quella gioia senza darlo a vedere. I convenevoli non durarono molto, ma il vecchio volle che fosse tradotto un ringraziamento a Patty per quell’opportunità, e una benedizione. 

Intercultura - Capitolo 10 Il viaggio in famiglia

2014

Un giorno Patty decise di partire per uno degli itinerari che Sunugal organizzava per piccoli gruppi in Senegal, portandosi il figlio: un bel viaggio istruttivo in Africa, accompagnati da Modou in persona, e da un figlio di Modou coetaneo, che non era mai stato nei paesi natali. Sarebbe stata un’occasione irripetibile di viaggio. I due ragazzi quattordicenni si ritrovarono catapultati in una realtà inimmaginabile per dei ragazzini cresciuti viziati in una città italiana, per la prima volta in un paese Subsahariano. Ora i diversi erano loro, unici tubab -tradotto bianchi- catapultati fra una marea di persone nere, additati e trattati con la tipica distanza sussiegosa con cui gli africani trattano i rari bianchi in visita. Erano loro, dall’interno dell’autovettura o alle spalle di Modou, a sentirsi diversi e a volersi proteggere dall’occhio indagatore. L’autovettura: già quando si arrivò all’aeroporto di Dakar fu chiaro che non sarebbe stato un viaggio di lusso. L’auto era antica come tante auto in quel Paese, doveva aver combattuto tante battaglie, apparteneva a un collaboratore di Modou, aveva il parabrezza rotto e i sedili tipici delle nostre auto anni ‘70, ma promisero che avrebbe funzionato. L’uscita dall’aeroporto-il vecchio aereoporto nel centro di Dakar - era un’esperienza di immersione in un fantastico caldo secco e in una miriade di colori e di persone che ti accoglievano gesticolando, per offrirti qualcosa. La presenza di Modou era essenziale per arginare la profferta di servizi, e dava un grande senso di sicurezza e di protezione. Patty era sotto la sua giurisdizione, erano già assegnati, e quindi lasciati in pace. Questo era un aspetto essenziale e impagabile: non eravano tubab qualsiasi, eravano più familiari. Uno di loro era perfino figlio di Modou. Era una meraviglia guardare negli occhi dei figli e leggervi lo stupore con cui già assaporavano quei primi momenti in terra d’Africa. Comportamenti diversi, movenze, suoni diversi, la stessa fila per avere il visto era tipica dei confini di un paese del terzo mondo, non aveva nulla a che fare con gli anonimi aeroporti Hub del mondo globale. I grandi pacchi che trasportavano nell’unico nastro tapisroulant non erano valigie, erano mondi diversi. I bianchi presenti in aeroporto si contavano sulle dita di una mano: era Africa, indiscutibilmente. 

Il viaggio in auto durò poco, perché l’alloggio era nel quartiere che circondava l’aereoporto, che già era Dakar, ed era anche un quartiere di pregio di Dakar, li informo’ Modou. Per un attimo Patty pensò che la stessero prendendo in giro: come faceva quello ad essere un quartiere di lusso? Le costruzioni erano perlopiù a due piani ma con le armature del cemento lasciate a sventolare alte nel caso si decidesse di proseguire la costruzione, ed erano case simili a quelle che aveva visto in altre periferie del terzo mondo, le strade erano sconnesse, i vicoli di terra battuta. Era questa la famosa Dakar che aveva acceso l’immaginazione di un passato verde, coloniale, quando era un elegante insediamento francese? Negli ultimi 40 anni la città era cresciuta a dismisura, con un caotico inurbamento dalle campagne, ed ora era un delirio abitato da milioni di persone, nei diversi quartieri, percorso da milioni di auto che giornalmente si incrociavano nelle strade polverose, che regolarmente si allagavano. Se dovevi attraversare la città, dovevi programmare un viaggio e non eri mai sicuro dei tempi di percorrenza. Quel giorno però l’alloggio era vicino e quindi velocemente si ritrovarono nella struttura: un ostello pulito e dignitoso che aveva all’ingresso dei souvenir adatti ai viaggiatori di quel contesto, usualmente volontari o solidali. Le stanze dove depositarono le valigie erano essenziali, colorate. Furono fatti sedere all’ingresso e nel giro di pochi minuti arrivò un enorme piatto metallico che conteneva agnello e riso. Si mangiava tutti insieme, dallo stesso piatto, con le mani, dopo essersele lavate in una bacinella. Patty si sentiva a suo agio, mangiare con le mani le era sempre piaciuto, anche se così, in tanti attorno ad uno stesso piatto, con le mascelle che si muovevano all’unisono, faceva una strana impressione di intimità eccessiva a chi non fosse abituato. In seguito avrebbero sperimentato ciò che accade nei villaggi al momento del pasto: un grande piatto è predisposto per gli uomini, che mangiano tutti insieme, mentre le donne e i bambini si arrangiano separatamente. Loro, i tubab, erano ammessi anche al piatto degli uomini, perché erano considerati un genere a parte. Erano gli ospiti ed erano bianchi. Così quel primo pasto fu consumato con l’agnello, il prezioso agnello che nei villaggi si mangia solo in occasioni speciali, essendo la carne un lusso raro. A Dakar lo si può comprare anche per strada, in specie di baracchini che lo vendono avvolto in fogli di carta oleata. È una carne dura ma prelibata. Così i ragazzi furono battezzati con agnello e riso e diedero inizio a quel percorso conoscitivo straordinario. 

Il giorno dopo si partì per il villaggio, con il bravissimo autista che cercava di rassicurare Patty sulla tenuta del parabrezza, tradotto dall’imperturbabile Modou che dava prova, anche qui, di saper fare scorrere come l’acqua, su di sé, ogni tensione, ogni richiesta, ogni parola a cui non rispondeva che con un mugugno. Era troppo abituato a sentire i bianchi lamentarsi una volta che mettevano piede in Africa, sapeva che doveva lasciarli ambientare. Era impossibile bypassare la sua volontà e quindi Patty si adeguò, si lasciò andare, smise di protestare. Non sapeva davvero se doveva dare piena fiducia a questo senegalese, ma dopotutto era ospite in terra sua. Il viaggio fu intenso, bello, lungo, caldissimo perché chiaramente l’auto non era condizionata. Inizialmente avevano percorso la circonvallazione trafficatissima che usciva da Dakar, con le auto intasate che strombazzavano e i venditori di arachidi che invadevano i finestrini aperti infilando le braccia nella macchina infuocata. Poi la strada era diventata la statale a una corsia che si snoda sempre dritta fino a San Louis, attraversando un paesaggio sempre uguale di steppa punteggiata da alberi Baobab fantasmagorici. Se non fosse che i 400 chilometri di strada erano sempre fiancheggiati dalla vita, che si svolgeva lungo la strada: insediamenti, costruzioni, venditori di frutta e verdura, pedoni, animali, la giornata trascorreva lungo quella strada, e ogni tanto ci si imbatteva in un agglomerato urbano ancora più vivace. Le donne sedevano in gruppi colorati e chiacchieravano, mangiavano, vendevano ortaggi e noccioline lungo la strada. Per terra, chiaramente. Gli uomini circolavano con passo che non si poteva dire frettoloso. Spesso li sfiorava un camion caricato all’inverosimile come un grande pacco in transito. Faceva paura vedere questi mezzi pesanti sfrecciare su un asfalto mal tenuto, e pure tutto sembrava andare come doveva. Un giorno, anzi una sera, sarebbe capitato anche di imbattersi in un incidente. Una corriera carica di persone era finita contro un’auto, era andata in parte fuori strada rovesciandosi su di un lato. La strada era bloccata dai mezzi incidentati e quindi le automobili si erano fermate, nel buio, in coda, e si era accorsi sul luogo dello scontro, che era appena avvenuto. Il buio era totale, a lato della corriera, sulla carreggiata, stavano stese delle persone che riportavano qualche rottura, si cercava ancora qualcuno che mancava all’appello. Gli incidenti hanno sempre la capacità di attrarci ed impressionarci, in quel caso quello che colpiva era la quantità di persone coinvolte, e anche qui la moltitudine umana si confondeva, i numeri non contavano più, erano tanti e basta. Non si lamentavano, prendevano anche quel fatto con rassegnazione, come parte dell’eventualità di ogni giornata. Quando finalmente si riuscì a passare, la corriera era ancora lì, una massa di ferro scalcagnata riversa su di un lato, e nel buio pesto della notte africana faceva impressione.

Quel primo viaggio con i ragazzi si arrivò al villaggio senza intoppi, dopo circa due ore di viaggio nel sole, e fu una festa. Il villaggio era nell’entroterra, e lo si raggiungeva con qualche chilometro di strada sterrata, semidesertica, dopo aver lasciato la strada principale. Patty vide comparire le costruzioni a un piano, uniformi nel paesaggio giallastro, e capì che si trattava di un vero villaggio. Nessuna traccia di un paese, ma poche costruzioni raccolte attorno a una strada di sabbia e niente altro. Faceva molto caldo, tuttavia una nuvola di bambini venne incontro all’auto che sobbalzava nella polvere. Modou li tenne a bada con ordini perentori, in Wolof. Diede loro delle istruzioni secche e i bimbi si adeguarono, senza tante storie. Era incredibile constatare come siano ben educati i bambini africani, al contrario dei bimbi occidentali, spesso viziati e pretenziosi. Arrivarono alla casa di Modou, che era anche la foresteria di Sunugal Associazione italo-senegalese, dove accoglievano gli ospiti di passaggio, le volontarie, gli scavatori di pozzi e gli scout. La casa era la più bella del villaggio, ed era costituita da alcune stanze costruite attorno a un cortile di terra battuta, anzi di sabbia. Tre di esse erano riservate agli ospiti, al lato opposto un’unica stanza dove dormivano donne e bambini, e la stanza del patriarca, il padre di Modou. La cucina doveva essere un fornello alimentato da bombola a gas, in esterno. Vi erano anche due bagni con doccia, riservati però solo agli ospiti bianchi. Quello che impressionava era la pulizia e la tranquillità del luogo, pur nella totale povertà e assenza di qualunque oggetto o tecnologia o diversivo. Nelle stanze, un letto con zanzariera e niente altro; però per terra una stuoia colorata. La costruzione poteva ricordare una casa coloniale, per il patio attorno al cortile, anche se la modalità costruttiva era di essenzialità africana. Per una scala si saliva sul tetto, che era provvisto di tettoia. Alla sera, gli uomini salivano a mangiare, prendere il fresco e chiacchierare, mentre a donne e bambini quel terrazzo era interdetto. Se non per portarci il cibo. Era un terrazzo spettacolare nella sua collocazione: a quell’altezza lo sguardo si perdeva nella savana e nel deserto, e una valanga di stelle ti inondava, nel buio più totale. Quando arrivarono, Modou scaricò la frutta che aveva portato in omaggio alla casa e senza tanti convenevoli iniziò ad aggirarsi per controllare che tutto fosse in ordine. Patty e I ragazzi stettero a guardarsi attorno, abbastanza impressionati. Ora i bimbi erano solo una decina, quelli che abitavano la casa, quindi la situazione si era fatta più gestibile. Mamadou presentò al patriarca suo figlio che veniva da lontano. Così finalmente il nonno ebbe l’opportunità di vedere il nipote, e il nipote di conoscere il nonno. Fu un momento emozionante. Era un uomo piccolo piccolo, ricurvo sulle spalle, aveva coltivato i campi per tutta la vita, vestiva una tunica bianca e portava un bastone in mano. Era una persona di grande dignità. I suoi occhi lasciarono trasparire un commosso turbamento e Patty fu felice. Il nipote reagì molto computamente, come se gli stessero presentando il personaggio di un film. Modou provò orgoglio e assaporò quella gioia senza darlo a vedere. I convenevoli non durarono molto, ma il vecchio volle che fosse tradotto un ringraziamento a Patty per quell’opportunità, e una benedizione. 

Il collaboratore di Sunugal Senegal Modou Diakhate alla guida dell'autovettura

Roberto e Bibo arrivano alla struttura ricettiva vicino all'aeroporto di Dakar

Le strade del Senegal
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I baobab del Senegal
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L'arrivo al villaggio di Modou, Beude Dieng, regione di Thies

La casa di Sunugal nel villaggio Beude Dieng

L'interno della casa di Sunugal nel villaggio Beude Dieng

Nella casa di Sunugal al villaggio Beude Dieng, la rassegna stampa di Modou Gueye attore