Massimo Kaufmann, Cella #7

7 giugno - 30 settembre 1999

Cella #7 fa parte di una serie di sculture, realizzate in materiali differenti (acciaio, rame, alluminio…) che riproducono le linee essenziali di un ambiente carcerario, le cui misure (2 x 3 m) corrispondono alle reali dimensioni delle celle di detenzione del braccio della morte del tristemente celebre carcere di Huntsvillle, nel Texas.

In questa raffigurazione virtuale della cella le linee architettoniche sono continue e pressoché prive di interruzione. Ciò crea l’immagine di un legame coatto rispetto agli oggetti d’uso più essenziali che garantiscono il minimo della sopravvivenza in condizioni di isolamento. Nulla quindi può essere spostato o modificato, niente può divenire suscettibile di una variazione che preveda una possibilità di scelta da parte dell’individuo che vi è stato introdotto. Il legame che si stabilisce tra le finalità per cui un tale ambiente è stato concepito e predisposto, e lo stile, la filosofia per così dire, che ispirano l’opera dell’architetto autore di un tale “capolavoro” di funzionalismo modernista, sono i motivi che hanno suggerito questa serie di opere.

Il paradosso che vi è contenuto consiste quindi nel prendere atto della complicità che si viene a stabilire tra la maschera estetica di un ordinamento giudiziario, come forma e linguaggio estremo, eccessivo di un qualsiasi potere politico, e la storia del gusto e delle sue convenzioni, incluse quelle che si esplicano nell’architettura, che è forse, tra tutte le forme d’arte, quella che si getta nel mondo reale con più possibilità persuasive; appunto come un linguaggio di potere.


Nel caso particolare di questo esemplare #7, i quindici endecasillabi dell’Infinito di Giacomo Leopardi percorrono le linee della struttura architettonica, con il proposito di rievocare la condizione spazio-temporale dell’individuo.

L'invito

Massimo Kaufmann, Cella #7

7 giugno - 30 settembre 1999

Cella #7 fa parte di una serie di sculture, realizzate in materiali differenti (acciaio, rame, alluminio…) che riproducono le linee essenziali di un ambiente carcerario, le cui misure (2 x 3 m) corrispondono alle reali dimensioni delle celle di detenzione del braccio della morte del tristemente celebre carcere di Huntsvillle, nel Texas.

In questa raffigurazione virtuale della cella le linee architettoniche sono continue e pressoché prive di interruzione. Ciò crea l’immagine di un legame coatto rispetto agli oggetti d’uso più essenziali che garantiscono il minimo della sopravvivenza in condizioni di isolamento. Nulla quindi può essere spostato o modificato, niente può divenire suscettibile di una variazione che preveda una possibilità di scelta da parte dell’individuo che vi è stato introdotto. Il legame che si stabilisce tra le finalità per cui un tale ambiente è stato concepito e predisposto, e lo stile, la filosofia per così dire, che ispirano l’opera dell’architetto autore di un tale “capolavoro” di funzionalismo modernista, sono i motivi che hanno suggerito questa serie di opere.

Il paradosso che vi è contenuto consiste quindi nel prendere atto della complicità che si viene a stabilire tra la maschera estetica di un ordinamento giudiziario, come forma e linguaggio estremo, eccessivo di un qualsiasi potere politico, e la storia del gusto e delle sue convenzioni, incluse quelle che si esplicano nell’architettura, che è forse, tra tutte le forme d’arte, quella che si getta nel mondo reale con più possibilità persuasive; appunto come un linguaggio di potere.


Nel caso particolare di questo esemplare #7, i quindici endecasillabi dell’Infinito di Giacomo Leopardi percorrono le linee della struttura architettonica, con il proposito di rievocare la condizione spazio-temporale dell’individuo.

Il comunicato stampa

Veduta dell'installazione

Manifesto per Viafarini, 1991

Marcello Gianoni e Massimo Kaufmann durante le riunioni in DImos, 1991

Massimo Kaufmann. Foto di Armin Linke