Yumi Karasumaru, Modern Crimes

8 - 28 febbraio 1999
a cura di Francesca Pasini

“Modern crimes”, questo è il tema della mostra di Yumi Karasumaru, una artista giapponese che vive in Italia da dieci anni. Dipinti e fotografie non sono caratterizzati dalle tinte forti con cui i media trattano questi argomenti, ma da una varietà di toni a volte luminosi, vivaci, a volte calmi, opachi. Non c’è l’orrore su cui non si può fissare la sguardo, ma la visione delle complicità culturali, sociali che legano alla storia la coscienza personale di ognuno.

"Quali sono i crimini moderni su cui indaga Yumi? Hiroshima e Nagasaki; la minaccia del gas nervino a Tokyo; l’omologazione globale che il Giappone e tutti i paesi a economia forte dell’Occidente stanno perseguendo.
Sia i dipinti che le foto nascono dalla sovrapposizione di un’identità sull’altra: ora la figura di alcuni feriti dalla bomba si fonde al disegno del fungo atomico; ora è quella di Yumi stessa, che sovrappone al proprio viso l’immagine di giocattoli, personaggi dei racconti infantili, supereroi, mentre in una performance si proietta sul corpo le sue foto e i suoi dipinti. C’è un filo che collega la bomba atomica con la progressiva e velocissima perdita di un’identità collettiva, colpita dal “fuoco” del consumo che sta distruggendo le tradizioni individuali, familiari, storiche del Giappone.

Sono crimini moderni di portata diversa nell’impeto di distruzione, ma non nel progressivo indebolimento dell’identità. Bambole, fumetti, supereroi diventano simbolo dell’omologazione guidata dai consumi, fin dall’infanzia. Sono ibridi enigmatici: non hanno niente a che fare con la fiction, costringono piuttosto a chiedersi cosa significa questo continuo scambio tra sé (il volto di Yumi) e la storia? Fino a che punto Hiroshima e Nagasaki sono state elaborate?
Abbiamo provato orrore, ma non si poteva ipotizzare l’uso dell’atomica, per cui sembrava più “tranquillizzante” abbinarla all’irrazionalità della guerra. Invece, solo una decina di anni fa, abbiamo saputo di esperimenti atomici, “pacifici”, perché fatti in luoghi disabitati del pianeta. Le conseguenze sull’ambiente e sulla vita umana non sono però ancora chiare. Allora, dopo che la guerra fredda è finita, di cui Hiroshima e Nagasaki sono considerate l’inizio, che dire?

Yumi Karasumaru sovrappone alla propria identità soggettiva e creativa la visione e il ricordo di quell’evento. Sarebbe semplice pensare a una sua necessità personale, visto che è giapponese, è invece una pratica che ognuno deve fare per avere un dialogo non subalterno con le varie culture. Lo scambio tra il suo linguaggio e quello occidentale (c’è un inedito sentimento Pop) è esplicito.
Non rinunciare al proprio linguaggio e imparare le parole degli altri è la scommessa del Duemila. Alle soglie del primo Millennio si prediceva la fine del mondo: “Mille e non più Mille”, non andò così. E l’Italia trovò una nuova visione artistica, proprio venendo a contatto con le popolazioni nomadi che si spostavano verso l’Europa di allora. Una coincidenza che si ripeterà nel Duemila? Speriamo".

Francesca Pasini

Yumi Karasumaru, Modern Crimes

8 - 28 febbraio 1999
a cura di Francesca Pasini

“Modern crimes”, questo è il tema della mostra di Yumi Karasumaru, una artista giapponese che vive in Italia da dieci anni. Dipinti e fotografie non sono caratterizzati dalle tinte forti con cui i media trattano questi argomenti, ma da una varietà di toni a volte luminosi, vivaci, a volte calmi, opachi. Non c’è l’orrore su cui non si può fissare la sguardo, ma la visione delle complicità culturali, sociali che legano alla storia la coscienza personale di ognuno.

"Quali sono i crimini moderni su cui indaga Yumi? Hiroshima e Nagasaki; la minaccia del gas nervino a Tokyo; l’omologazione globale che il Giappone e tutti i paesi a economia forte dell’Occidente stanno perseguendo.
Sia i dipinti che le foto nascono dalla sovrapposizione di un’identità sull’altra: ora la figura di alcuni feriti dalla bomba si fonde al disegno del fungo atomico; ora è quella di Yumi stessa, che sovrappone al proprio viso l’immagine di giocattoli, personaggi dei racconti infantili, supereroi, mentre in una performance si proietta sul corpo le sue foto e i suoi dipinti. C’è un filo che collega la bomba atomica con la progressiva e velocissima perdita di un’identità collettiva, colpita dal “fuoco” del consumo che sta distruggendo le tradizioni individuali, familiari, storiche del Giappone.

Sono crimini moderni di portata diversa nell’impeto di distruzione, ma non nel progressivo indebolimento dell’identità. Bambole, fumetti, supereroi diventano simbolo dell’omologazione guidata dai consumi, fin dall’infanzia. Sono ibridi enigmatici: non hanno niente a che fare con la fiction, costringono piuttosto a chiedersi cosa significa questo continuo scambio tra sé (il volto di Yumi) e la storia? Fino a che punto Hiroshima e Nagasaki sono state elaborate?
Abbiamo provato orrore, ma non si poteva ipotizzare l’uso dell’atomica, per cui sembrava più “tranquillizzante” abbinarla all’irrazionalità della guerra. Invece, solo una decina di anni fa, abbiamo saputo di esperimenti atomici, “pacifici”, perché fatti in luoghi disabitati del pianeta. Le conseguenze sull’ambiente e sulla vita umana non sono però ancora chiare. Allora, dopo che la guerra fredda è finita, di cui Hiroshima e Nagasaki sono considerate l’inizio, che dire?

Yumi Karasumaru sovrappone alla propria identità soggettiva e creativa la visione e il ricordo di quell’evento. Sarebbe semplice pensare a una sua necessità personale, visto che è giapponese, è invece una pratica che ognuno deve fare per avere un dialogo non subalterno con le varie culture. Lo scambio tra il suo linguaggio e quello occidentale (c’è un inedito sentimento Pop) è esplicito.
Non rinunciare al proprio linguaggio e imparare le parole degli altri è la scommessa del Duemila. Alle soglie del primo Millennio si prediceva la fine del mondo: “Mille e non più Mille”, non andò così. E l’Italia trovò una nuova visione artistica, proprio venendo a contatto con le popolazioni nomadi che si spostavano verso l’Europa di allora. Una coincidenza che si ripeterà nel Duemila? Speriamo".

Francesca Pasini