Alessandra Galletta

“Sulla carta l’idea era a dire poco geniale: aprire uno spazio aperto ai giovani artisti dove sperimentare, archiviare, comunicare il proprio lavoro, fuori dalle leggi del mercato spesso collegate a logiche lontane dalla qualità, dal talento e dalla sperimentazione.
Ma mentre immaginavamo un ambiente finalmente aperto senza distinzioni a critici, collezionisti, intellettuali, artisti affermati ed esordienti che offrisse la possibilità di incontrarsi e discutere, la ben più strutturata Milano for profit organizzava la controffensiva: le riviste d’arte imponevano ai loro redattori e collaboratori free lance di non recensire le nostre iniziative, i galleristi chiedevano ai loro artisti di non collaborare con un’organizzazione secondo loro più simile a un centro sociale che a uno spazio espositivo e i collezionisti, pur simpatizzando per noi, non si sognavano nemmeno di investire il proprio denaro per promuovere dei giovani artisti
.
E così le prime inaugurazioni ricordavano gli incontri tra carbonari: redattori e critici si facevano vedere all’ultimo minuto per non essere sgridati dai loro capi; i collezionisti avvicinavano gli artisti cercando di dedurre dalle loro scarne biografie se qualcuno li avrebbe mai davvero sostenuti e le sole pubblicazioni che comunicavano le nostre iniziative erano i pieghevoli distribuiti dal Comune di Milano presso i loro numerosi uffici, scambiando la nostra ancora imprecisa idea di centro di documentazione della giovane arte italiana per una sorta di centro di “arte e terapia”. Di conseguenza, oltre a ricevere la visita di giovani e promettenti artisti con il loro portfolio sotto il braccio come avevamo immaginato, ci siamo trovati anche alle prese con i molti “picchiatelli” della città, attratti dalla nostra idea di uno spazio aperto a tutti e a ogni forma di creatività, comprese le composizioni di coriandoli e vinavil su tela, i gioielli di mollica di pane o piccole testine di fildiferro arrugginito montate su turacciolo.

Sebbene le nostre intenzioni fossero dichiarate, trasparenti, aperte e democratiche, e fossimo allo stesso tempo alla ricerca di collaborazioni e collegamenti con l’ineludibile realtà del circuito commerciale dell’arte milanese, eravamo considerati un’entità sospetta, ambigua e doppiogiochista, una minaccia per gli interessi economici legati all’arte contemporanea imperanti a Milano negli anni ‘90. In effetti, nonostante la logica degli spazi nonprofit fosse già una realtà ben consolidata in altre città europee – dove veniva considerata da decenni una risorsa anche per il mercato tradizionale delle gallerie d’arte – in Italia ci ridevano letteralmente dietro.

Ci trattavano come ‘quelli che giocano con le cose serie’, anche se ricordo che una delle gallerie più note e prestigiose finì addirittura per imitare la nostra scheda di accettazione all’archivio e i nostri incontri di presentazione del portfolio; strumenti e pratiche che nessuna galleria privata, fino a quel momento, aveva mai preso in considerazione.
Eppure nonostante tante incertezze ed errori, aggiustamenti in corso d’opera e ingenuità, in Viafarini c’era qualcosa di forte, di autentico, di necessario, capace di andare oltre le mode, le contingenze, il mercato, e diventava via via più chiaro anche a noi stessi il senso e la ragione di quello che stavamo realizzando. Abbiamo fatto di necessità virtù mentre i nostri limiti diventavano la nostra forza. La prima mostra con artisti noti fu curata da Elio Grazioli, che invitò alcuni artisti, a quell’epoca sulla cresta dell’onda, ad esporre (o meglio, a non esporre) le loro opere in imballaggi anonimi; gli autori comparivano sull’invito ma tutte le opere si presentavano già imballate come pronte a partire, o appena arrivate, che importa. Era possibile acquistarle, ma a scatola chiusa e solo una volta entrati in possesso si poteva sapere chi era l’autore dell’opera appena collezionata. Prendere o lasciare, a rappresentare con un paradosso – una mostra di opere invisibili – come Viafarini fosse capace di esistere anche senza mostrarsi.

Siamo stati spesso accusati di non agire in modo professionale. Ritengo tuttavia che questo sia stato la nostra fortuna poiché, proprio grazie al fatto che non ci siamo mai presi troppo sul serio, siamo riusciti a mettere in discussione e a riformulare strumenti e modalità date per scontato e ad aggiungere a questi nuovi servizi e iniziative.

Oggi, a vent’anni da quell’improbabile start-up, Viafarini è cresciuta fino a diventare una solida realtà, un modello di riferimento, l’anello che mancava tra l’arte contemporanea e il grande pubblico senza altra mediazione che la necessità e il caso."

Alessandra Galletta, curatrice dell’Archivio 1995 / 1996, per Souvenir d'Italie - a nonprofit Art Story, 2010

Alessandra Galletta


“Sulla carta l’idea era a dire poco geniale: aprire uno spazio aperto ai giovani artisti dove sperimentare, archiviare, comunicare il proprio lavoro, fuori dalle leggi del mercato spesso collegate a logiche lontane dalla qualità, dal talento e dalla sperimentazione.
Ma mentre immaginavamo un ambiente finalmente aperto senza distinzioni a critici, collezionisti, intellettuali, artisti affermati ed esordienti che offrisse la possibilità di incontrarsi e discutere, la ben più strutturata Milano for profit organizzava la controffensiva: le riviste d’arte imponevano ai loro redattori e collaboratori free lance di non recensire le nostre iniziative, i galleristi chiedevano ai loro artisti di non collaborare con un’organizzazione secondo loro più simile a un centro sociale che a uno spazio espositivo e i collezionisti, pur simpatizzando per noi, non si sognavano nemmeno di investire il proprio denaro per promuovere dei giovani artisti
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E così le prime inaugurazioni ricordavano gli incontri tra carbonari: redattori e critici si facevano vedere all’ultimo minuto per non essere sgridati dai loro capi; i collezionisti avvicinavano gli artisti cercando di dedurre dalle loro scarne biografie se qualcuno li avrebbe mai davvero sostenuti e le sole pubblicazioni che comunicavano le nostre iniziative erano i pieghevoli distribuiti dal Comune di Milano presso i loro numerosi uffici, scambiando la nostra ancora imprecisa idea di centro di documentazione della giovane arte italiana per una sorta di centro di “arte e terapia”. Di conseguenza, oltre a ricevere la visita di giovani e promettenti artisti con il loro portfolio sotto il braccio come avevamo immaginato, ci siamo trovati anche alle prese con i molti “picchiatelli” della città, attratti dalla nostra idea di uno spazio aperto a tutti e a ogni forma di creatività, comprese le composizioni di coriandoli e vinavil su tela, i gioielli di mollica di pane o piccole testine di fildiferro arrugginito montate su turacciolo.

Sebbene le nostre intenzioni fossero dichiarate, trasparenti, aperte e democratiche, e fossimo allo stesso tempo alla ricerca di collaborazioni e collegamenti con l’ineludibile realtà del circuito commerciale dell’arte milanese, eravamo considerati un’entità sospetta, ambigua e doppiogiochista, una minaccia per gli interessi economici legati all’arte contemporanea imperanti a Milano negli anni ‘90. In effetti, nonostante la logica degli spazi nonprofit fosse già una realtà ben consolidata in altre città europee – dove veniva considerata da decenni una risorsa anche per il mercato tradizionale delle gallerie d’arte – in Italia ci ridevano letteralmente dietro.

Ci trattavano come ‘quelli che giocano con le cose serie’, anche se ricordo che una delle gallerie più note e prestigiose finì addirittura per imitare la nostra scheda di accettazione all’archivio e i nostri incontri di presentazione del portfolio; strumenti e pratiche che nessuna galleria privata, fino a quel momento, aveva mai preso in considerazione.
Eppure nonostante tante incertezze ed errori, aggiustamenti in corso d’opera e ingenuità, in Viafarini c’era qualcosa di forte, di autentico, di necessario, capace di andare oltre le mode, le contingenze, il mercato, e diventava via via più chiaro anche a noi stessi il senso e la ragione di quello che stavamo realizzando. Abbiamo fatto di necessità virtù mentre i nostri limiti diventavano la nostra forza. La prima mostra con artisti noti fu curata da Elio Grazioli, che invitò alcuni artisti, a quell’epoca sulla cresta dell’onda, ad esporre (o meglio, a non esporre) le loro opere in imballaggi anonimi; gli autori comparivano sull’invito ma tutte le opere si presentavano già imballate come pronte a partire, o appena arrivate, che importa. Era possibile acquistarle, ma a scatola chiusa e solo una volta entrati in possesso si poteva sapere chi era l’autore dell’opera appena collezionata. Prendere o lasciare, a rappresentare con un paradosso – una mostra di opere invisibili – come Viafarini fosse capace di esistere anche senza mostrarsi.

Siamo stati spesso accusati di non agire in modo professionale. Ritengo tuttavia che questo sia stato la nostra fortuna poiché, proprio grazie al fatto che non ci siamo mai presi troppo sul serio, siamo riusciti a mettere in discussione e a riformulare strumenti e modalità date per scontato e ad aggiungere a questi nuovi servizi e iniziative.

Oggi, a vent’anni da quell’improbabile start-up, Viafarini è cresciuta fino a diventare una solida realtà, un modello di riferimento, l’anello che mancava tra l’arte contemporanea e il grande pubblico senza altra mediazione che la necessità e il caso."

Alessandra Galletta, curatrice dell’Archivio 1995 / 1996, per Souvenir d'Italie - a nonprofit Art Story, 2010