Intercultura - Capitolo 9 La residenza

2014

Patty si riteneva ormai così coinvolta nelle progettualità, che quando Modou chiese maggiori informazioni sulle residenze artistiche che lei gestiva, lo giudicò attinente. Lui espresse il bisogno di usufruire di una casa autonoma, di smettere la condivisione con africani che ultimamente esercitava, e lei lo invitò in residenza. Anche Modou entrava a far parte della grande famiglia di quel luogo dell’arte che ne aveva viste di tutti i colori, ormai letteralmente. Modou venne accettato con simpatia dal vicinato e con indifferenza dagli altri artisti. Iniziò un lungo periodo, che sarebbero diventati cinque anni, in cui Modou elevò anche quel piccolo spazio a propria base, e l’appartamento ospitava lunghe ore di lavoro al computer e di telefonate in lingua italiana, francese, Woloff. Qualche volta l’intero cortile si impregnava dell’odore delle spezie che utilizzava per preparare le pietanze per i suoi eventi. 

Era coccolato, come gli altri artisti della residenza. Viveva nel luogo ideale, spazio dell’arte, una delle zone culturalmente più vivaci di Milano, circondato dai negozi e dai locali alla moda che frequentava. L’appartamento era minuscolo, ma c’erano diversi collaboratori e familiari da aiutare, e così si iniziò l’ospitalità del clan: dormivano in tre in una stanza, andavano e venivano, si stringevano, si aiutavano. Ad un certo punto a Patty venne in mente che era davvero diventata la residenza di Mascherenere/Sunugal, e aderì a una chiamata del Comune di Milano: si cercavano esempi di accoglienza e di integrazione di stranieri in famiglie milanesi. La residenza di Viafarini si candidò, Giulio Verago come curatore, Mihovil Markulin (che lì viveva coordinando gli ospiti) – che li viveva coordinando gli ospiti, e Patrizia parteciparono ai corsi sull’accoglienza, organizzati dall’Assessorato alle politiche sociali di Pierfrancesco Majorino. La residenza di Modou diventò ufficialmente l’esempio di accoglienza in una famiglia artistica, visto che gli atri rifugiati avevano trovato altre sistemazioni. Arrivarono i giornalisti e i video maker, la situazione venne documentata. I vicini di casa furono intervistati. In modo quasi involontario si era diventati modello di integrazione interculturale di quartiere. 

Ogni volta che Patty aveva sperimentato un rapporto economico con un africano, aveva avuto la stessa impressione. Ci fu una volta in cui Patty si disse disponibile ad accogliere nel suo spazio espositivo un’intera rappresentanza di venditori di case senegalesi, sostenuti dal loro governo. Dovevano organizzare per la diaspora una specie di fiera dell’opportunità di acquistare casa in patria. Se c’era un Ministero di mezzo, la cosa doveva essere seria. Patty accettò di organizzare l’iniziativa, su richiesta di un mediatore senegalese che viveva in Italia, e che si sarebbe ritrovato fra due fuochi. L’accordo sul prezzo per l’ospitalità fu stabilito, e Patty coinvolse anche gli spazi limitrofi. Fu firmato un accordo scritto. Gli spazi furono allestiti. Quando gli organizzatori senegalesi arrivarono, Patty non capiva a chi dovesse rivolgersi per concludere la faccenda. Aveva chiesto di essere rimborsata subito, all’arrivo. Invece i giorni passavano e ogni giorno c’era una nuova scusa per dilazionare e una nuova persona con cui parlare. Si passavano la palla con estrema disinvoltura e nessuno sembrava in grado di sapere come fare a saldare un debito di circa diecimila euro. Nemmeno se ne preoccupavano. A richiesta, rispondevano che vi erano problemi con il trasferimento bancario, piuttosto che con il prelievo in loco. Sembrava che proprio nessuno si fosse posto il problema di come potessero fare fronte al proprio impegno. Quella che ora si sentiva in colpa era Patty, perché riuscivano a rimbalzarsi le responsabilità in modo che Patty doveva quasi scusarsi nel chiedere una soluzione. Nel frattempo erano in tanti, per oltre una settimana, a frequentare gli spazi. Andavano e venivano con estrema naturalezza vestiti nei loro kafkani. Alle ore di precetto stendevano dei tappetini nello spazio, e pregavano. Arrivò anche una rappresentanza di venditori ambulanti milanesi, che si sistemò di fronte alle porte dello spazio a vendere scarpe. Furono cacciati dai gestori del Centro Culturale: avrebbero dovuto pagare la occupazione di suolo pubblico. Ma quello era un evento commerciale o una manifestazione culturale? A Patty la risposta sembrava la seconda. Il Comune avrebbe dovuto favorire una iniziativa che di base era molto corretta, utile, in linea con il principio sbandierato dai politici di @aiutiamoli a casa loro@. Cosa c era di più sensato che promuovere il rientro a casa della diaspora, con mezzi da investire in edilizia nei propri Paesi ? Alla fine la questione dei soldi si risolse in mazzette consegnate alla spicciolata, giorno dopo giorno e non per l’intera somma, perchè si concessero uno sconto di un buon 30%. Non ci fu modo di farsi consegnare l’intero ammontare. Ed era molto imbarazzante sedersi ogni volta nello spazio di fronte a tre o quattro uomini variopinti che si davano un tono, a contare mille euro. L’impressione di pressappochismo che Patty ne ricavò non si sarebbe piu cancellata. E comunque, usando modi enfatici, erano riusciti a farsi uno sconto in un evento patrocinato e sostenuto dal governo, in uno spazio pubblico, a Milano. Erano riusciti ad esasperare Patty, a farla sentire stupida, a metterla in imbarazzo con gli altri spazi che aveva coinvolto. 

Ci fu una sola volta in cui la vicina particolarmente stizzosa, quella signora che sembrava aver ingerito un manico di scopa, si comportò in modo riprovevole e mise Modou nella condizione di sentirsi al solito emarginato. Erano sul portone d’ingresso, lui voleva farle un favore aprendole il portoncino, lei si era spaventata ed aveva urlato “chiamo la polizia”. Allora lui aveva dichiarato che la polizia la chiamava lui, e se non intervenivano i vicini la situazione sarebbe degenerata. L’esempio di intercultura a quel punto sarebbe stato davvero perfetto. D’altra parte, quando Modou frequentava la casa di Patty, la sua presenza era comunque registrata: un carabiniere che conosceva per via dei permessi di soggiorno gli fece notare che la sua figura risultava immortalata nei nastri video registrati mentre entrava ed usciva da una casa del centro. Modou non era mai invisibile, la sua persona era comunque sempre notata, ovunque andasse.

Nella casa in residenza Modou usava cucinare grandi quantità di pollo e di riso per le sue iniziative. Odore di spezie per tutto il cortile. Il cibo per Modou era un modo per offrire accoglienza, era un’abitudine ereditata dal suo Paese. Era un modo per manifestare benessere. Cucinare lo rendeva calmo, poteva farlo in silenzio, oppure cantando uno dei suoi motivi africani. Allora il suono inconfondibile, quel bel canto che gli riusciva così bene, invadeva le case vicine. Poi bisognava mangiare, era obbligatorio mangiare, e apprezzare. Piatti abbondanti, era il suo modo preferito per prendersi cura delle persone. L’importanza del cibo: in residenza lo conoscevano forse solo per quello. Quando aveva una pentola piena di riso e pollo appena cotti, andava a cercare qualcuno per offrirli. Se avanzava del cibo, andava a cercare qualcuno per offrirlo. Sprecava denaro ogni giorno in una gestione poco accorta della sua attività, ma stava attento a non sprecare neanche un grano di riso. Raccoglieva per strada ciò che era riciclabile, e poi non sapeva mai quanti soldi aveva in tasca e men che meno in banca. In più aveva intrapreso una carriera di imprenditore culturale, mestiere quasi ingestibile in Italia a meno di non essere benestanti:  impossibile fare previsioni economiche, impossibile riscuotere il dovuto in tempo accettabili. I debiti erano la prassi. La contabilità era una scienza arcana. Era più facile vivere alla giornata. Finché trovava qualcuno che colmava i buchi in banca, era a posto. Altrimenti il destino avrebbe provveduto. Anche in questo la sua mentalità era un misto fra quella di un artista e quella dei suoi conterranei. 

Non sarebbe mai riuscita ad accettare quell’atteggiamento, quel rapporto con il denaro. Per un occidentale era semplicemente non serio. Per loro era come se il denaro non dovesse mai esserci, e se ce ne era, era giusto tenerselo. Era quasi vergognoso chiederlo indietro. In Occidente si dice inaffidabile e corrotto, in Africa probabilmente questi termini non esistono. È la necessità, la dignità, e forse anche il rapporto malsano con l’Occidente. Sembra strano costatare un fatto così banale, che anche la contabilità sia un’arte; se nella fascia più modesta della popolazione africana tale arte è poco praticata, sicuramente lo stesso accade anche nelle alte sfere, dove la governance è una chimera, e la opacità è totale. Patty stava in fondo sperimentando nel suo piccolo proprio la cultura africana. Non sapeva capire come i suoi prestiti non venissero considerati come denaro sonante, da gestire con oculatezza, in modo efficiente e con un sistema di contabilità. No, venivano percepiti come qualcos’altro, come un onorevole rimborso per tutto ciò che nella storia gli africani avevano patito, un risarcimento retroattivo, una fatale manna dal cielo, dovuta  alla provvidenza. Il denaro non quindi come una misura di valori ma una fortuna provvidenziale a cui non si deve dire di no, quando arriva. Non è un investimento nel futuro, ma un qui ed ora totalmente fatalista. D’altra parte la cultura quotidiana della popolazione africana è ancora legata al concetto del fato, il caso che sovraintende alla vita tutta. Niente di più lontano dal razionalismo occidentale.

Intercultura - Capitolo 9 La residenza

2014

Patty si riteneva ormai così coinvolta nelle progettualità, che quando Modou chiese maggiori informazioni sulle residenze artistiche che lei gestiva, lo giudicò attinente. Lui espresse il bisogno di usufruire di una casa autonoma, di smettere la condivisione con africani che ultimamente esercitava, e lei lo invitò in residenza. Anche Modou entrava a far parte della grande famiglia di quel luogo dell’arte che ne aveva viste di tutti i colori, ormai letteralmente. Modou venne accettato con simpatia dal vicinato e con indifferenza dagli altri artisti. Iniziò un lungo periodo, che sarebbero diventati cinque anni, in cui Modou elevò anche quel piccolo spazio a propria base, e l’appartamento ospitava lunghe ore di lavoro al computer e di telefonate in lingua italiana, francese, Woloff. Qualche volta l’intero cortile si impregnava dell’odore delle spezie che utilizzava per preparare le pietanze per i suoi eventi. 

Era coccolato, come gli altri artisti della residenza. Viveva nel luogo ideale, spazio dell’arte, una delle zone culturalmente più vivaci di Milano, circondato dai negozi e dai locali alla moda che frequentava. L’appartamento era minuscolo, ma c’erano diversi collaboratori e familiari da aiutare, e così si iniziò l’ospitalità del clan: dormivano in tre in una stanza, andavano e venivano, si stringevano, si aiutavano. Ad un certo punto a Patty venne in mente che era davvero diventata la residenza di Mascherenere/Sunugal, e aderì a una chiamata del Comune di Milano: si cercavano esempi di accoglienza e di integrazione di stranieri in famiglie milanesi. La residenza di Viafarini si candidò, Giulio Verago come curatore, Mihovil Markulin (che lì viveva coordinando gli ospiti) – che li viveva coordinando gli ospiti, e Patrizia parteciparono ai corsi sull’accoglienza, organizzati dall’Assessorato alle politiche sociali di Pierfrancesco Majorino. La residenza di Modou diventò ufficialmente l’esempio di accoglienza in una famiglia artistica, visto che gli atri rifugiati avevano trovato altre sistemazioni. Arrivarono i giornalisti e i video maker, la situazione venne documentata. I vicini di casa furono intervistati. In modo quasi involontario si era diventati modello di integrazione interculturale di quartiere. 

Ogni volta che Patty aveva sperimentato un rapporto economico con un africano, aveva avuto la stessa impressione. Ci fu una volta in cui Patty si disse disponibile ad accogliere nel suo spazio espositivo un’intera rappresentanza di venditori di case senegalesi, sostenuti dal loro governo. Dovevano organizzare per la diaspora una specie di fiera dell’opportunità di acquistare casa in patria. Se c’era un Ministero di mezzo, la cosa doveva essere seria. Patty accettò di organizzare l’iniziativa, su richiesta di un mediatore senegalese che viveva in Italia, e che si sarebbe ritrovato fra due fuochi. L’accordo sul prezzo per l’ospitalità fu stabilito, e Patty coinvolse anche gli spazi limitrofi. Fu firmato un accordo scritto. Gli spazi furono allestiti. Quando gli organizzatori senegalesi arrivarono, Patty non capiva a chi dovesse rivolgersi per concludere la faccenda. Aveva chiesto di essere rimborsata subito, all’arrivo. Invece i giorni passavano e ogni giorno c’era una nuova scusa per dilazionare e una nuova persona con cui parlare. Si passavano la palla con estrema disinvoltura e nessuno sembrava in grado di sapere come fare a saldare un debito di circa diecimila euro. Nemmeno se ne preoccupavano. A richiesta, rispondevano che vi erano problemi con il trasferimento bancario, piuttosto che con il prelievo in loco. Sembrava che proprio nessuno si fosse posto il problema di come potessero fare fronte al proprio impegno. Quella che ora si sentiva in colpa era Patty, perché riuscivano a rimbalzarsi le responsabilità in modo che Patty doveva quasi scusarsi nel chiedere una soluzione. Nel frattempo erano in tanti, per oltre una settimana, a frequentare gli spazi. Andavano e venivano con estrema naturalezza vestiti nei loro kafkani. Alle ore di precetto stendevano dei tappetini nello spazio, e pregavano. Arrivò anche una rappresentanza di venditori ambulanti milanesi, che si sistemò di fronte alle porte dello spazio a vendere scarpe. Furono cacciati dai gestori del Centro Culturale: avrebbero dovuto pagare la occupazione di suolo pubblico. Ma quello era un evento commerciale o una manifestazione culturale? A Patty la risposta sembrava la seconda. Il Comune avrebbe dovuto favorire una iniziativa che di base era molto corretta, utile, in linea con il principio sbandierato dai politici di @aiutiamoli a casa loro@. Cosa c era di più sensato che promuovere il rientro a casa della diaspora, con mezzi da investire in edilizia nei propri Paesi ? Alla fine la questione dei soldi si risolse in mazzette consegnate alla spicciolata, giorno dopo giorno e non per l’intera somma, perchè si concessero uno sconto di un buon 30%. Non ci fu modo di farsi consegnare l’intero ammontare. Ed era molto imbarazzante sedersi ogni volta nello spazio di fronte a tre o quattro uomini variopinti che si davano un tono, a contare mille euro. L’impressione di pressappochismo che Patty ne ricavò non si sarebbe piu cancellata. E comunque, usando modi enfatici, erano riusciti a farsi uno sconto in un evento patrocinato e sostenuto dal governo, in uno spazio pubblico, a Milano. Erano riusciti ad esasperare Patty, a farla sentire stupida, a metterla in imbarazzo con gli altri spazi che aveva coinvolto. 

Ci fu una sola volta in cui la vicina particolarmente stizzosa, quella signora che sembrava aver ingerito un manico di scopa, si comportò in modo riprovevole e mise Modou nella condizione di sentirsi al solito emarginato. Erano sul portone d’ingresso, lui voleva farle un favore aprendole il portoncino, lei si era spaventata ed aveva urlato “chiamo la polizia”. Allora lui aveva dichiarato che la polizia la chiamava lui, e se non intervenivano i vicini la situazione sarebbe degenerata. L’esempio di intercultura a quel punto sarebbe stato davvero perfetto. D’altra parte, quando Modou frequentava la casa di Patty, la sua presenza era comunque registrata: un carabiniere che conosceva per via dei permessi di soggiorno gli fece notare che la sua figura risultava immortalata nei nastri video registrati mentre entrava ed usciva da una casa del centro. Modou non era mai invisibile, la sua persona era comunque sempre notata, ovunque andasse.

Nella casa in residenza Modou usava cucinare grandi quantità di pollo e di riso per le sue iniziative. Odore di spezie per tutto il cortile. Il cibo per Modou era un modo per offrire accoglienza, era un’abitudine ereditata dal suo Paese. Era un modo per manifestare benessere. Cucinare lo rendeva calmo, poteva farlo in silenzio, oppure cantando uno dei suoi motivi africani. Allora il suono inconfondibile, quel bel canto che gli riusciva così bene, invadeva le case vicine. Poi bisognava mangiare, era obbligatorio mangiare, e apprezzare. Piatti abbondanti, era il suo modo preferito per prendersi cura delle persone. L’importanza del cibo: in residenza lo conoscevano forse solo per quello. Quando aveva una pentola piena di riso e pollo appena cotti, andava a cercare qualcuno per offrirli. Se avanzava del cibo, andava a cercare qualcuno per offrirlo. Sprecava denaro ogni giorno in una gestione poco accorta della sua attività, ma stava attento a non sprecare neanche un grano di riso. Raccoglieva per strada ciò che era riciclabile, e poi non sapeva mai quanti soldi aveva in tasca e men che meno in banca. In più aveva intrapreso una carriera di imprenditore culturale, mestiere quasi ingestibile in Italia a meno di non essere benestanti:  impossibile fare previsioni economiche, impossibile riscuotere il dovuto in tempo accettabili. I debiti erano la prassi. La contabilità era una scienza arcana. Era più facile vivere alla giornata. Finché trovava qualcuno che colmava i buchi in banca, era a posto. Altrimenti il destino avrebbe provveduto. Anche in questo la sua mentalità era un misto fra quella di un artista e quella dei suoi conterranei. 

Non sarebbe mai riuscita ad accettare quell’atteggiamento, quel rapporto con il denaro. Per un occidentale era semplicemente non serio. Per loro era come se il denaro non dovesse mai esserci, e se ce ne era, era giusto tenerselo. Era quasi vergognoso chiederlo indietro. In Occidente si dice inaffidabile e corrotto, in Africa probabilmente questi termini non esistono. È la necessità, la dignità, e forse anche il rapporto malsano con l’Occidente. Sembra strano costatare un fatto così banale, che anche la contabilità sia un’arte; se nella fascia più modesta della popolazione africana tale arte è poco praticata, sicuramente lo stesso accade anche nelle alte sfere, dove la governance è una chimera, e la opacità è totale. Patty stava in fondo sperimentando nel suo piccolo proprio la cultura africana. Non sapeva capire come i suoi prestiti non venissero considerati come denaro sonante, da gestire con oculatezza, in modo efficiente e con un sistema di contabilità. No, venivano percepiti come qualcos’altro, come un onorevole rimborso per tutto ciò che nella storia gli africani avevano patito, un risarcimento retroattivo, una fatale manna dal cielo, dovuta  alla provvidenza. Il denaro non quindi come una misura di valori ma una fortuna provvidenziale a cui non si deve dire di no, quando arriva. Non è un investimento nel futuro, ma un qui ed ora totalmente fatalista. D’altra parte la cultura quotidiana della popolazione africana è ancora legata al concetto del fato, il caso che sovraintende alla vita tutta. Niente di più lontano dal razionalismo occidentale.