Hyunjhin Baik, Adjective Look

21 settembre - 24 novembre 2007
a cura di Milovan Farronato

Un incessante rimbalzo, un ossessivo rintocco riecheggia in tutto lo spazio. Si tratta del ritmico e costante rumore di una pallina da ping pong che rimbalza. Come un ticchettio scandisce il tempo; come altri suoni pretende una risposta, fosse anche solo il dialogo muto della sua ripetizione. Certamente ha scandito il flusso di coscienza dell’artista che ha generato mille possibili narrazioni e nessuna in particolare, e ora palleggia lo sguardo dell’osservatore tra i segni dispersi in mostra.

Viafarini è diventata un A4, un semplice e puro foglio bianco su cui Hyunjhin Baik, nell’arco di due mesi di residenza, ha materializzato una composizione attraverso suono, pittura, scultura, installazione e performance. O forse è questa sedimentazione di tracce ed espressioni — tra il ponderato e l’imponderabile, tra il serio e il faceto — che è diventata lirica (ricordiamo che Baik è anche musicista underground, compositore professionista nonché poeta; ha collaborato con il danzatore e coreografo coreano Eun-Mi Ahn, con la leggendaria danzatrice-coreografa tedesca Pina Bausch e con diversi registi, tra cui Chan-Uk Park, Sang-Soo Hong e Ki-Duk Kim):

Un aspetto senza alcun aggettivo / con ogni aggettivo

L’ho letto, perché avevo sentito dire
che era un testo grandioso.
Invece era mediocre.
Infatti, non l'ho neanche letto fino alla fine.
Il tutto per un’immagine che avevo visto tanto tempo fa.
Forse per questo 
ho continuato ad avere pensieri banali.
Quindi non potevo leggerlo bene.
In molti mi chiedevano continuamente la mia opinione.
Così rispondevo, è così così.
Comunque adesso, lo sai.
Non è vero.
La mia risposta era assolutamente non ponderata.
Me ne vergogno.
A questo punto, mi sorge questo pensiero:
se ci fosse stato un minimo rapporto con 
l’immagine che avevo visto, molto probabilmente, 
suppongo, sarei almeno riuscito a leggerlo 
fino alla fine.

Cosa l’artista non è riuscito a leggere? Si tratta di un testo reale o fittizio? Esiste un filo conduttore? Quattro tavoli da ping pong inutilizzati trasmettono un suono fantasma. Un logo formato da quattro forme romboidali cola sul muro e si rincorre nei disegni e nelle pitture. Due sono i colori di questa bandiera liquefatta: rosso e verde come un semaforo che arresta o invita a procedere (elemento ripreso anche dal titolo di una serie di disegni He saw a traffic signal). È un sì e un no, un avanti e un indietro, un vivi e un muori. Impone la logica binaria su cui si struttura la mostra. Il sottofondo, così come i tavoli, lasciano supporre che abbia avuto luogo una competizione che tuttavia non ha prodotto un vincitore – le racchette sono solo da difesa – ma ha causato una tragedia. Alcune palline si sono metamorfizzate in ricci dorati e altri motivi lasciano presumere che uno dei due contendenti si sia suicidato, mentre l’altro verosimilmente ha deciso di dedicarsi all’arte venatoria: una carabina, la testa di cervo in trofeo, la scultura fittizia di un altro fucile in legno… E infine un quadro che ritrae il volto di un uomo ferino anch’esso esposto in trofeo.

Il tutto accade di fronte a due enormi tele (Dusk e Dawn) che ritraggono un pubblico di volti, un’audience che ammicca, occhieggia, appare indifferente, talvolta sbeffeggia la sua platea. In questo scenario anche Hyunjhin Baik sarà ready made di se stesso durante le giornate dell’inaugurazione. In posa statuaria, innalzato su uno dei tavoli da gioco, con in mano una delle racchette della competizione, canta ininterrottamente come un juke-box, mentre, in questa mostra “schizofrenica”, una testa d’aglio fecondata e impiccata al muro cerca disperatamente di congiungersi a una cipolla intenta a radicarsi in una bottiglia d’acqua.

Come nelle strutture complesse delle sequenze del regista Sang-Soo Hong, anche qui si ha la sensazione di perdersi nel flusso degli innumerevoli rimandi e significati simulati. Anche Hyunjhin Baik attua uno slittamento del significato che comunemente attribuiamo alle cose, alla normalità, in un processo critico e analitico di osservazione del mondo: è un appello all’ascolto e al superamento delle apparenze. Lo spettatore è guidato verso una situazione d’incertezza intellettuale, una messa in discussione delle categorie mentali. Non è facile distinguere realtà e simulazione, serietà e ironia. Ma forse, alla fine, come in un film di David Lynch, al di là delle possibili interpretazioni, si ha sempre il sospetto di essere stati abilmente ingannati…

Hyunjhin Baik, Adjective Look

21 settembre - 24 novembre 2007
a cura di Milovan Farronato

Un incessante rimbalzo, un ossessivo rintocco riecheggia in tutto lo spazio. Si tratta del ritmico e costante rumore di una pallina da ping pong che rimbalza. Come un ticchettio scandisce il tempo; come altri suoni pretende una risposta, fosse anche solo il dialogo muto della sua ripetizione. Certamente ha scandito il flusso di coscienza dell’artista che ha generato mille possibili narrazioni e nessuna in particolare, e ora palleggia lo sguardo dell’osservatore tra i segni dispersi in mostra.

Viafarini è diventata un A4, un semplice e puro foglio bianco su cui Hyunjhin Baik, nell’arco di due mesi di residenza, ha materializzato una composizione attraverso suono, pittura, scultura, installazione e performance. O forse è questa sedimentazione di tracce ed espressioni — tra il ponderato e l’imponderabile, tra il serio e il faceto — che è diventata lirica (ricordiamo che Baik è anche musicista underground, compositore professionista nonché poeta; ha collaborato con il danzatore e coreografo coreano Eun-Mi Ahn, con la leggendaria danzatrice-coreografa tedesca Pina Bausch e con diversi registi, tra cui Chan-Uk Park, Sang-Soo Hong e Ki-Duk Kim):

Un aspetto senza alcun aggettivo / con ogni aggettivo

L’ho letto, perché avevo sentito dire
che era un testo grandioso.
Invece era mediocre.
Infatti, non l'ho neanche letto fino alla fine.
Il tutto per un’immagine che avevo visto tanto tempo fa.
Forse per questo 
ho continuato ad avere pensieri banali.
Quindi non potevo leggerlo bene.
In molti mi chiedevano continuamente la mia opinione.
Così rispondevo, è così così.
Comunque adesso, lo sai.
Non è vero.
La mia risposta era assolutamente non ponderata.
Me ne vergogno.
A questo punto, mi sorge questo pensiero:
se ci fosse stato un minimo rapporto con 
l’immagine che avevo visto, molto probabilmente, 
suppongo, sarei almeno riuscito a leggerlo 
fino alla fine.

Cosa l’artista non è riuscito a leggere? Si tratta di un testo reale o fittizio? Esiste un filo conduttore? Quattro tavoli da ping pong inutilizzati trasmettono un suono fantasma. Un logo formato da quattro forme romboidali cola sul muro e si rincorre nei disegni e nelle pitture. Due sono i colori di questa bandiera liquefatta: rosso e verde come un semaforo che arresta o invita a procedere (elemento ripreso anche dal titolo di una serie di disegni He saw a traffic signal). È un sì e un no, un avanti e un indietro, un vivi e un muori. Impone la logica binaria su cui si struttura la mostra. Il sottofondo, così come i tavoli, lasciano supporre che abbia avuto luogo una competizione che tuttavia non ha prodotto un vincitore – le racchette sono solo da difesa – ma ha causato una tragedia. Alcune palline si sono metamorfizzate in ricci dorati e altri motivi lasciano presumere che uno dei due contendenti si sia suicidato, mentre l’altro verosimilmente ha deciso di dedicarsi all’arte venatoria: una carabina, la testa di cervo in trofeo, la scultura fittizia di un altro fucile in legno… E infine un quadro che ritrae il volto di un uomo ferino anch’esso esposto in trofeo.

Il tutto accade di fronte a due enormi tele (Dusk e Dawn) che ritraggono un pubblico di volti, un’audience che ammicca, occhieggia, appare indifferente, talvolta sbeffeggia la sua platea. In questo scenario anche Hyunjhin Baik sarà ready made di se stesso durante le giornate dell’inaugurazione. In posa statuaria, innalzato su uno dei tavoli da gioco, con in mano una delle racchette della competizione, canta ininterrottamente come un juke-box, mentre, in questa mostra “schizofrenica”, una testa d’aglio fecondata e impiccata al muro cerca disperatamente di congiungersi a una cipolla intenta a radicarsi in una bottiglia d’acqua.

Come nelle strutture complesse delle sequenze del regista Sang-Soo Hong, anche qui si ha la sensazione di perdersi nel flusso degli innumerevoli rimandi e significati simulati. Anche Hyunjhin Baik attua uno slittamento del significato che comunemente attribuiamo alle cose, alla normalità, in un processo critico e analitico di osservazione del mondo: è un appello all’ascolto e al superamento delle apparenze. Lo spettatore è guidato verso una situazione d’incertezza intellettuale, una messa in discussione delle categorie mentali. Non è facile distinguere realtà e simulazione, serietà e ironia. Ma forse, alla fine, come in un film di David Lynch, al di là delle possibili interpretazioni, si ha sempre il sospetto di essere stati abilmente ingannati…